C’è un posto pieno di farfalle nel mio cuore, in cui custodisco la memoria di migliaia di persone e, in particolare, di tanti bambini che alla fine della loro breve vita non hanno più potuto vedere farfalle colorate volare intorno a loro. Ma ciò che gli occhi non potevano più vedere era visto dal loro cuore.
Quel posto si chiama Terezin. E’ una piccola città vicino a Praga, entrata a far parte del mio percorso sin dalla mia infanzia. In quella città fortezza dalla pianta a forma di stella hanno vissuto in prigionia migliaia di deportati ebrei tra il 1941 e il 1945, tra cui numerosi artisti e intellettuali e una moltitudine di bambini. Proprio loro, i più indifesi, hanno lasciato una testimonianza eterna con i loro disegni, oggi conservati nel museo della Sinagoga di Praga. Il disegno preso a simbolo di questa raccolta di opere è di Margit Koretzovà e raffigura delle farfalle colorate posate su dei fiori.
Pavel Friedman, un altro bambino ospite di Terezin, rivide le farfalle nei suoi ricordi e ne parlò in versi:
“ L’ultima, proprio l’ultima, / di un giallo così intenso, così / assolutamente giallo,/ come una lacrima di sole quando cade / sopra una roccia bianca / così gialla, così gialla! / l’ultima, / volava in alto leggera, / aleggiava sicura / per baciare il suo ultimo mondo. / Tra qualche giorno / sarà già la mia settima settimana / di ghetto: / i miei mi hanno ritrovato qui / e qui mi chiamano i fiori di ruta / e il bianco candeliere di castagno / nel cortile. / Ma qui non ho rivisto nessuna farfalla. / Quella dell’altra volta fu l’ultima: / le farfalle non vivono nel ghetto.”

Il male voleva annientarli, cancellando per sempre ogni traccia del loro passaggio sulla terra. Il loro alito eterno, infuso nei colori di centinaia di disegni e inciso nei versi di struggenti poesie, ha lasciato invece che le loro esistenze stroncate non fossero dimenticate. Proprio loro hanno lasciato il segno più profondo e significativo di quanto la purezza, la semplicità e la spontaneità possano bastare a sconfiggere il male.
“S’io facessi il fornaio vorrei cuocere un pane così grande da sfamare tutta, tutta la gente che non ha da mangiare. Un pane più grande del sole, dorato, profumato come le viole”.
Gianni Rodari
Le storie dei bambini si intrecciano inevitabilmente con quelle delle donne di Terezin. Donne che tentano in ogni modo di ricostruire la vita di prima, occupandosi dei più piccoli, lavorando, sfamando i loro figli con fette di pane duro e surrogato di caffè. Dispensatrici di cibo e di vita.
Parlano tra loro, si raccontano, condividono ricordi lontani. Si scambiano anche ricette, come sempre accade tra donne. Parlare di cibo, anche quando questo non c’è, significa mantenere un legame con le proprie radici, con i momenti belli trascorsi in famiglia attorno al tavolo, con le tradizioni e la propria identità.
Mina Pächter ha raccolto quelle ricette condivise dalle sue compagne in un ricettario, giunto fino a noi col titolo “Sognavamo di cucinare”, Le Château Edizioni.
La memoria dei piatti cucinati ha donato a quelle donne momenti di calore famigliare, un ritorno ai profumi di casa. La speranza di non sentire più la fame e di tornare, un giorno, a cucinare di nuovo per i loro cari. Ricordare il cibo diventa emblema del desiderio di vivere, di resistere in ogni modo e con ogni mezzo.
Chissà quante volte quelle donne hanno sognato di poter cuocere un pane fragrante, caldo, e di poterne imburrare una fetta da dare ai loro figli.
Le donne che si scambiavano le ricette non hanno mai fatto ritorno alle loro case. Non hanno potuto più cucinare i piatti della loro memoria. E così farò io. Non replico le ricette colorate, piene di speranza e di amore per la vita, che ho letto tra le pagine del ricettario di Mina Pächter. Mi lascio ispirare dalla semplicità di ingredienti poveri che sapevano scaldare il cuore, come le patate, utilizzate in tanti piatti del ricordo. Celebro la memoria di queste donne e dei bimbi indimenticati con un pane di patate.
Ricetta
Pane di patate

Ingredienti (per un pane da 1 kg circa):
- 600 gr di farina 0
- 300 gr di patate lesse
- 400 gr di acqua
- 100 gr di lievito madre (il mio Carsènt)
- un cucchiaino di zucchero
- un cucchiaino di sale
- farina di semola rimacinata per la spianatoia
Procedimento:
In una ciotola capiente mischio farina e acqua e lascio riposare per circa 40 minuti. Aggiungo poi le patate lessate, il lievito madre, il sale (che io diluisco sempre in acqua prima di aggiungerlo) e lo zucchero. Impasto fino a formare un impasto elastico che raccolgo in una palla liscia che faccio riposare per un’ora.
Cospargo la spianatoia con la semola rimacinata, rovescio l’impasto e lo lavoro facendo delle pieghe. Formo nuovamente una palla che ripongo a riposare in frigorifero per una notte.
Il giorno seguente tolgo la ciotola dal frigorifero e la lascio a temperatura ambiente per tre ore. Successivamente faccio altre pieghe e formo un filone che ripongo sulla placca da forno a riposare per altre due ore.
Scaldo il forno a 250° faccio delle lievi incisioni sul filone ed inforno per 15 minuti.
Abbasso la temperatura a 220° e cuocio per altri 15 minuti.
Finisco la cottura a forno aperto per 10 minuti, dopo i quali sforno e faccio raffreddare.
***
Questo è per me il pane della memoria, della fatica e della speranza. Ha una lavorazione attenta e lunga. A dispetto della semplicità degli ingredienti, il pane sprigiona un bouquet di aromi ricco, sontuoso, e regala morbidezza anche per più giorni. E’ un pane che resta, resiste, e dona il meglio di sé sino alla fine, proprio come gli animi più nobili che lasciano una memoria indelebile in eterno.