Profumo di pane, profumo di ricordi.

Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.
(Cesare Pavese)

racconto di Carlo

Copyright Corriere Milano

Come per molti negozi di allora, parliamo degli anni 60, il concetto di “casa e bottega” diventava reale essendo la casa strettamente collegata al negozio stesso. Casa è, nel mio caso, un termine quasi esagerato, in realtà si trattava di due locali in cui si concentravano tutte le attività domestiche.

In attesa che si liberasse un altro locale noi bambini dormivamo nel “magazzino”.

Il “magazzino” era un locale pieno di scatoloni di ogni genere essendo il negozio una Posteria. Almeno un tempo, una Posteria era un negozio in cui si trovava di tutto: il necessario per la cura della casa, della persona per arrivare, naturalmente, ai generi alimentari. Questo è sempre stato un gran vantaggio per noi bambini perché ci dava accesso diretto alle “merendine” con una scelta che nessun altro bambino poteva avere così a portata di mano. Fra tutte mi ricordo il Sultano, una sorta di pane dolce dalla forma allungata che conteneva uva, appunto, sultanina. Il Sultano faceva a gara con la Fiesta, arrivata dopo, della quale mi ricordo un sapore che non ho più ritrovato nella versione moderna … o forse è solo un ricordo.

Il magazzino era il nostro parco giochi quando mia madre, impegnata con i clienti che entravano e uscivano, non aveva molto tempo per noi tre fratelli piccoli. Gli scatoloni, nel magazzino, erano disposti ordinatamente a seconda dei prodotti che contenevano e del reparto a cui appartenevano, questo per permettere, a fine giornata, un facile accesso per ripristinare i vuoti lasciati sugli scaffali. Mia madre ci teneva e sapeva bene che mio padre, tornando tardi la sera da Milano, avrebbe dato un’occhiata. Gli scaffali dovevano sempre essere in ordine senza buchi che facevano, a detta loro, una brutta impressione. Mio padre lavorava a Milano ma affiancava mia madre nella passione per il negozio tanto da rimanere sveglio fino a tarda notte per fare l’insalata russa, aprire e disporre la grande latta di mostarda Sperlari con i frutti enormi che ora non si vedono più, oppure per disossare il nuovo prosciutto crudo lasciando l’osso un po’ “ricco” in modo tale che il giorno dopo avremmo potuto mangiare il prosciutto più dolce, quello vicino all’osso. Tale era la passione che aveva persino trovato il tempo di frequentare un corso di gastronomia da Peck.

Per noi, soprattutto io e mia sorella, essendo mio fratello già un po’ più grandicello, gli scatoloni del magazzino erano montagne da scalare o angoli dietro cui nascondersi nel sempre presente gioco del nascondino, naturalmente facendo attenzione a non far crollare tutto e rompere qualche vasetto di mostarda o di giardiniera, e, soprattutto, facendo attenzione di non fare troppo rumore perché non si sentisse dal negozio.

Infatti l’accesso diretto al negozio permetteva, dal magazzino, di ascoltare le voci che, dal primo mattino, si alternavano; da chi doveva andare al lavoro, ai viaggiatori che chiedevano sempre “manca qualcosa?” alle casalinghe che facevano la spesa per il pranzo prima di accompagnare i figli a scuola.

Su tutte, però, la prima voce che si sentiva era quella “del Bruno”, il Prestinè. A lui era riservato l’accesso privilegiato dal retro prima che si alzasse la Cler, come fosse ormai uno di famiglia. E così, immediatamente, la giornata prendeva vita con il profumo caldo del pane appena sfornato che andava a riempire gli scaffali del bancone. Certo la varietà non era quella di oggi, c’era la classica Michetta Milanese di cui mi piaceva il rumore secco quando la aprivo sempre sorpreso di non trovare nulla all’interno, come una scatola che volesse essere riempita … e infatti accoglieva ben volentieri le fette di salame per comporre la più classica delle merende, pane e salame … nessun bambino, allora, avrebbe potuto dire di no ad una tale tentazione. C’era il Francesino, forse ricordo storico della Battaglia di Magenta dove, si dice, sia nato il colore che porta ancora oggi lo stesso nome. Poi, a fare bella mostra di sé proprio di fianco alla “bilancia del pane”, detta così perché vi veniva pesato solo il pane, c’era il Pugliese Giallo, venduto a fette e tagliato con il suo coltello dedicato, una sorta di vezzo di cui si vantava dalla sua posizione privilegiata da cui poteva guardare direttamente il cliente che lo aveva richiesto. Ricordo il suo colore del sole e la sua fierezza che lo rendeva, per la sua consistenza, poco gradevole al mio palato di bambino tanto da lasciarlo volentieri a godersi il viavai dei clienti.

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E infine c’era lui il sovrano indiscusso, il pane che spiccava su tutti per dimensione, fragranza e ricchezza di una morbida mollica che lo rendeva, almeno così ricordo, il compagno ideale per essere “pucciato” nel condimento di qualsiasi piatto. Ci volevano almeno 5 Michette o 3 Francesini per eguagliarne il peso e la ricchezza. Sua maestà il Biove.

Tutto qui, se così si può dire, solo 4 tipi di pane il cui profumo accompagnava l’inizio delle giornate prima che la colazione, la cartella, il grembiulino della scuola prendessero il sopravvento.

A proposito, si andava a scuola da soli, a piedi.

***

Ricetta del pane Biove

I ricordi culinari di chi è stato bambino, in Lombardia, negli anni ’60 e ’70, sono indissolubilmente legati ad un pane diventato, per me, mitologico: il Biove!

Questa pagnotta leggendaria ha allietato pietanze e merende di generazioni di lombardi per poi battere in ritirata verso gli ultimi avamposti piemontesi, lasciando la terra insubre in balia di rosette, filoni e pani di ogni tipologia e provenienza che oggi campeggiano sulle tavole padane.

Non ricordo di aver assaggiato personalmente un Biove (me ne ricorderei, dato che pare fosse il pane più buono del mondo :-D) e non ho ancora provato a cuocerlo nel mio forno. Per questo motivo, faccio riferimento alla ricetta di altrettanto mitiche panificatrici italiane: le sorelle Simili.

Riporto qui di seguito la loro ricetta:

Ingredienti

  • 500 g farina 00
  • 280 g acqua
  • 20 g lievito di birra fresco
  • 20 g strutto
  • 10 g malto d’orzo
  • 8 g sale

Procedimento

Fate la fontana, amalgamate al centro tutti gli ingredienti fino ad ottenere un impasto morbido, ma non appiccicoso. Lavorate e battete per 10 minuti a mano o se preferite con una planetaria. Coprite e fate lievitare per 20 minuti.
Dividete l’impasto in due parti e formate due filoni che spianerete con il matterello in due rettangoli piuttosto sottili. Ricavate da ogni rettangolo due strisce, che stenderete piuttosto sottilmente, in una striscia alta circa 6 cm..
Arrotolate la pasta tenendo le dita sui lati per impedire che si formino delle punte.
A questo punto adagiate il panino su un panno infarinato, con la falda sotto e il lato arrotolato lateralmente, sollevate un po’ di panno e posizionate l’ altro panino, punta contro punta, con il telo a dividere ( per intenderci il lato arrotolato va contro un altro lato arrotolato diviso dalla tela), in questo modo cresceranno solo in orizzontale. Coprire con un canovaccio e lasciare lievitare 30-40 minuti.

Sollevate ora i pezzi, delicatamente, e tagliateli  a metà con una spatola di plastica, appoggiateli su una pala ( se usate la pietra per cuocerli)  o su una teglia se usate quella con il taglio verso l’alto.

Incidete, in corrispondenza del taglio, con una lametta, a circa un centimetro di profondità.

Infornate a 200° per 25-30 minuti . Se usate la pietra accendete il forno con la pietra per tempo, ci vorra un po’ per scaldare bene la pietra. Fate raffreddare su una griglia.

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